Intervento del Card. Kurt Koch
Intervento di P. Norbert Hofmann, S.D.B.
Intervento del Rabbino David Rosen
Intervento del Dr. Edward Kessler
Alle ore 11.30 di questa mattina, nell’Aula Giovanni Paolo II della Sala Stampa della Santa Sede, ha luogo la conferenza stampa di presentazione di un nuovo Documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo dal titolo “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50º Anniversario di Nostra aetate (n. 4).
Intervengono l’Em.mo Card. Kurt Koch, Presidente della Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo; P. Norbert Hofmann, S.D.B., Segretario della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo; Rabbi David Rosen, International Director of Interreligious Affairs, American Jewish Committee (AJC), Jerusalem (Israel) e il Dr. Edward Kessler, Founder Director of the Woolf Institute, Cambridge (United Kingdom).
Ne pubblichiamo di seguito gli interventi:
Intervento del Card. Kurt Koch
Mercoledì 28 ottobre di quest’anno, secondo il desiderio di Papa Francesco, è stata organizzata un’udienza generale del tutto speciale, perché nello stesso giorno, cinquant’anni prima, veniva promulgata la Dichiarazione “Nostra aetate” del Concilio Vaticano Secondo. A tale udienza hanno assistito anche numerosi rappresentanti di altre religioni. La loro presenza si spiega per il fatto che il testo conciliare ha segnato una svolta nell’atteggiamento della Chiesa cattolica verso le altre religioni e va dunque inteso come un plaidoyer a favore del dialogo interreligioso. La celebrazione del 50º anniversario di “Nostra aetate” ha avuto luogo dal 26 al 28 ottobre scorso, con una grande conferenza internazionale presso la Pontificia Università Gregoriana. Le oltre quattrocento persone ivi presenti hanno poi assistito all’udienza papale del 28 ottobre, che ha dunque rappresentato il culmine della commemorazione. In tale occasione, il Santo Padre ha sottolineato l’importanza del dialogo interreligioso e della collaborazione tra le varie religioni davanti ai gravi problemi ed alle grandi sfide del tempo presente: “Il mondo guarda a noi credenti, ci esorta a collaborare tra di noi e con gli uomini e le donne di buona volontà che non professano alcuna religione, ci richiede risposte effettive su numerosi temi: la pace, la fame, la miseria che affligge milioni di persone, la crisi ambientale, la violenza, in particolare quella commessa in nome della religione, la corruzione, il degrado morale, le crisi della famiglia, dell’economia, della finanza, e soprattutto della speranza”.
Per la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, la ricorrenza di questo anniversario è una buona occasione per presentare un nuovo documento, che riprende i principi teologici del quarto punto di “Nostra aetate”, li amplia e li approfondisce, laddove essi interessano le relazioni tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Se è vero che, nel corso della storia della Chiesa, non sono mancate dichiarazioni ufficiali in merito all’ebraismo o alla convivenza tra cattolici ed ebrei, è altrettanto vero che “Nostra aetate” (n. 4) presenta, per la prima volta, la decisa posizione teologica di un Concilio nei confronti dell’ebraismo. La dichiarazione ricorda espressamente le radici ebraiche del cristianesimo. Gesù e i suoi primi discepoli erano ebrei, segnati dalla tradizione ebraica del loro tempo; solo in tale contesto è dunque possibile comprenderli correttamente.
Il documento che oggi desidero presentare s’intitola “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili. Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche”. Si tratta di un documento esplicitamente teologico, che intende riprendere e chiarire le questioni che sono affiorate negli ultimi decenni nel dialogo ebraico-cattolico. Prima di questo testo, nessun altro documento di stampo teologico in senso stretto era stato pubblicato dalla nostra Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. I tre documenti precedenti riguardavano piuttosto tematiche concrete, utili al dialogo con l’ebraismo da un punto di vista essenzialmente pratico.
Accennando brevemente alla storia della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, desidero ricordare che essa fu istituita dal beato Papa Paolo VI il 22 ottobre del 1974. L’anno stesso della sua fondazione, la Commissione della Santa Sede pubblicò, il 1° dicembre 1974, il suo primo documento ufficiale, intitolato “Orientamenti e Suggerimenti per l’Applicazione della Dichiarazione Conciliare Nostra aetate (n. 4)”. L’obiettivo principale ed innovatore di questo documento era quello di avvicinarsi all’ebraismo per conoscerlo nel modo in cui esso si auto-concepisce. Il documento intendeva principalmente occuparsi del modo in cui “Nostra aetate” (n. 4) può essere tradotta nella pratica adeguatamente, nei diversi contesti. A distanza di undici anni, il 24 giugno 1985, la Commissione della Santa Sede ha pubblicato un secondo documento intitolato “Circa una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella Predicazione e nella Catechesi della Chiesa cattolica”. Seppure il testo sia già connotato esegeticamente e teologicamente, esso ha uno stampo prevalentemente pratico: s’incentra infatti sul modo in cui l’ebraismo viene presentato nella predicazione e nella catechesi cattoliche. Un terzo documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo è stato presentato al pubblico il 16 marzo 1998. Esso si occupa della Shoah ed è intitolato “Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah”. Questo documento è stato soprattutto voluto dai nostri partner ebrei, data l’importanza che la tragedia della Shoah riveste nella loro lunga storia di persecuzioni.
Rispetto a questi tre primi documenti, il documento presente ha un carattere ed un orientamento ben diversi. Il contesto che ha fornito la giusta occasione per la sua redazione è già stato menzionato: il 50º anniversario della promulgazione di “Nostra aetate” (n. 4). Qual è però la ragione che ha motivato la sua stesura? Cosa si prefigge questo documento?
Il preambolo sottolinea che non si tratta di un documento ufficiale del Magistero della Chiesa cattolica, ma di un documento di studio della nostra Commissione, il cui intento è quello di approfondire la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico. Il documento non vuole dunque presentare affermazioni dottrinali definitive, ma fornire uno spunto ed un impulso per ulteriori discussioni teologiche. Un importante obiettivo di Papa Francesco e della nostra Commissione è infatti l’approfondimento del dialogo religioso e teologico tra ebrei e cattolici. Già “Nostra aetate” (n. 4) aveva menzionato questioni teologiche che richiedevano un’ulteriore riflessione. Ed è precisamente a questa riflessione che il presente documento vuole apportare il proprio contributo. Esso invita i teologici e, più in generale, tutti coloro che sono interessati al dialogo ebraico-cristiano a recepire, a considerare e a discutere i vari punti esposti nel documento.
Il documento si articola intorno a sette sezioni: 1. Breve storia dell’impatto di “Nostra aetate” (n. 4) nel corso degli ultimi 50 anni; 2. Lo statuto teologico speciale del dialogo ebraico-cattolico; 3. La rivelazione nella storia come “Parola di Dio” nell’ebraismo e nel cristianesimo; 4. La relazione tra Antico e Nuovo Testamento e tra Antica e Nuova Alleanza; 5. L’universalità della salvezza in Gesù Cristo e l’alleanza mai revocata di Dio con Israele; 6. Il mandato evangelizzatore della Chiesa in relazione all’ebraismo; 7. Gli obiettivi del dialogo con l’ebraismo.
Nella prima sezione, viene esposta brevemente la storia del dialogo ebraico-cattolico negli ultimi cinquant’anni, sintetizzata al n. 10 con le seguenti parole: “In questo arco di tempo, molto è stato realizzato; dalla contrapposizione di una volta si è passati ad una proficua collaborazione, dal potenziale di conflitto ad un’efficiente gestione dei conflitti, da una coesistenza contrassegnata dalle tensioni ad una convivenza solida e fruttuosa. I legami di amicizia sviluppatisi negli anni hanno dimostrato la loro robustezza ed hanno permesso così di affrontare insieme persino temi controversi senza il rischio di arrecare al dialogo un danno permanente.” Queste parole corrispondono a quanto affermato da Papa Francesco durante l’udienza generale del 28 ottobre: “Una speciale gratitudine a Dio merita la vera e propria trasformazione che ha avuto in questi 50 anni il rapporto tra cristiani ed ebrei. Indifferenza e opposizione si sono mutate in collaborazione e benevolenza. Da nemici ed estranei, siamo diventati amici e fratelli”. A testimonianza di questo aspetto, la prima sezione menziona le attività e le iniziative intraprese dagli ultimi tre Pontefici nel campo del dialogo ebraico-cattolico, come pure quelle della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, sulle quali non è possibile soffermarsi nel dettaglio.
La seconda sezione, da un punto di vista teologico, ripete in realtà un concetto non nuovo, ovvero il fatto che il cristianesimo deriva dall’ebraismo, ha radici ebraiche e può essere compreso adeguatamente soltanto tenendo presente tale contesto. Gesù nasce, vive e muore come ebreo; anche i suoi primi discepoli e gli apostoli, quali colonne della Chiesa cristiana, si situano in continuità con la tradizione religiosa ebraica del loro tempo. Tuttavia, Gesù la trascende, poiché, secondo la fede cristiana, egli non può essere considerato soltanto come ebreo, ma anche e soprattutto come Messia e Figlio di Dio. Il documento afferma pertanto: “La differenza di fondo tra ebraismo e cristianesimo consiste nel modo in cui si ritiene di dover valutare la figura di Gesù. Gli ebrei possono vedere Gesù come un appartenente al loro popolo, un maestro ebraico che ha sentito di essere chiamato in modo particolare ad annunciare il Regno di Dio. Il fatto però che il Regno di Dio sia venuto con lui quale rappresentante di Dio è al di fuori dell’orizzonte ebraico di attese messianiche” (n. 14). Anche se l’ebreo Gesù è percepito in maniera diversa da cristiani e da ebrei, da un punto di vista teologico si può tuttavia parlare, per quanto riguarda le relazioni tra cristiani ed ebrei, di un legame di parentela strettissimo e imprescindibile. Il documento descrive infatti il dialogo tra ebrei e cristiani con le seguenti parole: “Pertanto, solo con le dovute riserve, il dialogo ebraico-cristiano può essere definito ‘dialogo interreligioso’ in senso stretto; si dovrebbe piuttosto parlare di un tipo di ‘dialogo intra-religioso’ o ‘intra-familiare’ sui generis” (n. 20).
La terza sezione si occupa della rivelazione nella storia come “Parola di Dio”. Sia ebrei che cristiani credono che il Dio di Israele si è rivelato attraverso la sua Parola, offrendo così agli uomini un insegnamento su come vivere in maniera riuscita nel giusto rapporto con Dio e con il prossimo. Questa Parola di Dio è individuabile per gli ebrei nella Torah; per i cristiani, essa si è incarnata in Gesù Cristo (cfr. Gv 1,14). Al riguardo, Papa Francesco ha affermato: “Le confessioni cristiane trovano la loro unità in Cristo; l’ebraismo trova la sua unità nella Torah. I cristiani credono che Gesù Cristo è la Parola di Dio fattasi carne nel mondo; per gli Ebrei la Parola di Dio è presente soprattutto nella Torah. Entrambe le tradizioni di fede hanno per fondamento il Dio Unico, il Dio dell’Alleanza, che si rivela agli uomini attraverso la sua Parola. Nella ricerca di un giusto atteggiamento verso Dio, i cristiani si rivolgono a Cristo quale fonte di vita nuova, gli Ebrei all’insegnamento della Torah” (Discorso ai membri dell’International Council of Christians and Jews, 30 giugno 2015).
La quarta sezione verte sul rapporto tra Antico e Nuovo Testamento e tra Antica e Nuova Alleanza. “Per il fatto che l’Antico Testamento è parte integrante dell’unica Bibbia cristiana, vi è un senso di appartenenza profondamente radicato ed un intrinseco legame tra ebraismo e cristianesimo” (n. 28). Certamente, i cristiani interpretano le Scritture dell’Antico Testamento in modo diverso rispetto agli ebrei, poiché l’evento di Cristo rappresenta per loro la nuova chiave d’interpretazione per comprenderle. Sant’Agostino riassume così questo concetto: “L’Antico Testamento si mostra nel Nuovo, mentre il Nuovo è nascosto nell’Antico.” E Papa Gregorio Magno definisce l’Antico Testamento “profezia del Nuovo“ (cfr. n. 29). I cristiani partono fondamentalmente dal presupposto che l’arrivo di Gesù Cristo quale Messia era già contenuto nelle profezie dell’Antico Testamento. Alla luce di questa “concordia testamentorum”, ovvero dell’imprescindibile concordia tra i due Testamenti, si comprende anche il rapporto del tutto speciale tra Antica e Nuova Alleanza: “L’Alleanza offerta da Dio a Israele è irrevocabile… La Nuova Alleanza non revoca le precedenti alleanze, ma le porta a compimento… Per i cristiani, la Nuova Alleanza in Cristo è il punto culminante delle promesse di salvezza dell’Antica Alleanza ed, in tale misura, non è mai indipendente da essa. La Nuova Alleanza ha per base e fondamento l’Antica, poiché è il Dio di Israele che stringe l’Antica Alleanza con il popolo di Israele e rende possibile la Nuova Alleanza in Gesù Cristo” (n. 27). Va dunque tenuto presente che può esserci soltanto un’unica storia dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, e che Dio ha sempre rinnovato la sua alleanza con il suo popolo Israele. In questo quadro s’iscrive anche la Nuova Alleanza, seppure essa si ponga in un rapporto speciale con le precedenti: “La Nuova Alleanza, per i cristiani, non è né l’annullamento né la sostituzione, ma il compimento delle promesse dell’Antica Alleanza” (n. 32).
Nella quinta sezione viene menzionata la spinosa questione di come comprendere il fatto che gli ebrei sono salvati senza che essi credano esplicitamente in Gesù Cristo quale Messia di Israele e Figlio di Dio. “Poiché Dio non ha mai revocato la sua alleanza con il suo popolo Israele, non possono esserci vie o approcci diversi alla salvezza di Dio… Confessare la mediazione salvifica universale e dunque anche esclusiva di Gesù Cristo fa parte del fulcro della fede cristiana tanto quanto confessare il Dio uno e unico, il Dio di Israele che, rivelandosi in Gesù Cristo” (n. 35). “Dalla confessione cristiana di un’unica via di salvezza non consegue, però, che gli ebrei sono esclusi dalla salvezza di Dio perché non credono in Gesù Cristo quale Messia di Israele e Figlio di Dio… Dio ha affidato a Israele una missione unica e non porterà a compimento il suo misterioso piano di salvezza rivolto a tutti i popoli (cfr. 1 Tm 2,4) senza coinvolgere il suo ‘figlio primogenito’ (Es 4,22)… Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino insondabile” (n. 36).
Ad un’altra tematica spinosa si riferisce la sesta sezione: quale deve essere l’atteggiamento dei cristiani sulla questione dell’evangelizzazione in relazione agli ebrei? Al riguardo, troviamo nel documento le seguenti affermazioni: “La Chiesa deve dunque comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che credono nell’unico Dio, in maniera diversa rispetto a quella diretta a coloro che appartengono ad altre religioni o hanno altre visioni del mondo. Ciò significa concretamente che la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei. Fermo restando questo rifiuto -per principio- di una missione istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei; devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah” (n. 40).
Infine, nella settima sezione, sono enunciati, da un punto di vista cattolico, gli obiettivi del dialogo ebraico-cattolico, che non erano ancora mai stati espressi in un documento in modo così esplicito. Naturalmente, l’intento principale è quello di permettere a cattolici e ad ebrei di conoscersi e di apprezzarsi in maniera più approfondita. Tra gli obiettivi da perseguire, vi è però anche la collaborazione nel campo dell’esegesi, ovvero dell’interpretazione delle Sacre Scritture, che ebrei e cristiani hanno in comune. E ancora: “Un importante obiettivo del dialogo ebraico-cristiano consiste indubbiamente nell’impegno comune a favore della giustizia, della pace, della salvaguardia del creato e della riconciliazione in tutto il mondo” (n. 46). “Giustizia e pace non dovrebbero comunque essere concetti astratti nel dialogo, ma dovrebbero concretizzarsi in modo tangibile. La sfera sociale-umanitaria offre un ricco campo di attività, poiché sia l’etica ebraica che l’etica cristiana comprendono l’imperativo di assistere i poveri, i deboli e i malati” (n. 48). Il documento aggiunge poi che, nell’ambito della formazione delle giovani generazioni, ci si dovrebbe sforzare di rendere noti i risultati ed i progressi compiuti nel dialogo ebraico-cattolico. Infine, si fa riferimento all’antisemitismo: “Un altro importante obiettivo nel dialogo ebraico-cattolico consiste nella lotta comune contro ogni manifestazione di discriminazione razziale verso gli ebrei e contro ogni forma di antisemitismo” (n. 47).
Con questa breve panoramica sul contenuto del nuovo documento, ho tentato di mettere in evidenza il fatto che il dialogo con l’ebraismo, dopo cinquant’anni, poggia ora su un solido terreno, poiché molto è stato realizzato in questo arco di tempo. Di ciò dobbiamo essere riconoscenti a Dio, senza il cui aiuto non saremmo giunti dove ci troviamo adesso: “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori” (Sal 127,1). Siamo naturalmente grati per ogni sforzo compiuto sia da parte ebraica che da parte cattolica a favore della promozione del nostro dialogo. Altrettanto importante è però ricordare, come sottolinea il documento, che, soprattutto dal punto di vista teologico, siamo solo ad un nuovo inizio: molte questioni rimangono aperte e richiedono un ulteriore studio. Per questo, mi auguro che il presente documento sia ben recepito da tutti coloro che sono impegnati nel dialogo ebraico-cristiano o che ad esso sono interessati, e possa fornire loro uno stimolante spunto per la riflessione, per le conversazioni e per gli scambi futuri.
[02131-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Intervento di P. Norbert Hofmann, S.D.B.
Già per il 40º anniversario della promulgazione della Dichiarazione conciliare “Nostra aetate” si era pensato originariamente di pubblicare un documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede. Per diversi motivi, questo non è stato possibile nel 2005. Riflettendo in maniera retrospettiva, possiamo dire che è stato meglio aver atteso fino ad oggi, poiché le questioni teologiche presenti nell’attuale documento sono state discusse in maniera dettagliata ed appassionata soprattutto negli ultimi dieci anni.
Il documento non intende assolutamente mettere un punto conclusivo a queste discussioni. Esso vuole essere piuttosto uno stimolo al proseguimento ed all’approfondimento della dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico. La Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo si richiama all’obiettivo che lo stesso Papa Francesco si è posto, ovvero far sì che il dialogo ebraico-cattolico acquisisca una maggiore profondità ed ampiezza dal punto di vista teologico. Ecco delinearsi anche uno dei motivi principali per cui il presente documento viene pubblicato in questo momento: il dialogo teologico tra ebrei e cattolici deve ricevere nuovi impulsi.
È nostro auspicio che i teologi cattolici impegnati da molto tempo nel dialogo ebraico-cattolico accolgano e sviluppino ulteriormente le riflessioni contenute nel documento. Di fatti, il documento si rivolge primariamente a tutti coloro che sono attivi in questo dialogo. Tuttavia, esso può essere utile anche a chi si interessa, più in generale, alle relazioni ebraico-cattoliche.
Il documento è stato elaborato non solo sulla base delle affermazioni di fede cattoliche, ma anche tenendo conto delle posizioni dei nostri partner di dialogo. Ad un certo punto della redazione del documento, sono stati infatti coinvolti anche consultori ebrei ai quali è stato chiesto un parere sull’adeguatezza di quanto esposto nel testo circa l’ebraismo. Nel testo si trovano riferimenti non solo all’Antico ed al Nuovo Testamento, ma anche alla Mishna ed al Talmud. La redazione del documento è durata complessivamente due anni e mezzo, poiché le prime bozze risalgono al 2013. Già Papa Benedetto XVI si era detto favorevole alla stesura di un simile documento, ma soltanto con il “placet” dato da Papa Francesco poco dopo la sua elezione, il lavoro è potuto iniziare.
Fin dall’inizio, c’è stata una stretta collaborazione con la Congregazione per la dottrina della fede, che naturalmente è sempre interpellata quando si tratta di testi teologici in Vaticano. Al riguardo, desideriamo ringraziare di cuore Sua Eminenza il Cardinale Gerhard Müller ed i suoi collaboratori per la loro competenza e disponibilità in questo lavoro congiunto.
Essendo il Cardinale Koch, il Cardinale Müller ed il sottoscritto di madrelingua tedesca, la prima bozza del documento è stata elaborata in tedesco. Un piccolo gruppo di quattro persone, due rappresentanti della nostra Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo e due rappresentanti della Congregazione per la dottrina della fede, hanno preparato la prima versione del documento, prima che venisse tradotto in inglese. Il testo è stato letto da entrambi i cardinali, che hanno proposto alcune modifiche, dopodiché è stata organizzata una consultazione internazionale di consultori della nostra Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Questi consultori, sulla base del testo inglese, hanno avanzato suggerimenti per migliorare il documento. Alla luce di tali osservazioni, il testo è stato modificato ed inviato alla Congregazione per la dottrina della fede, la quale, a sua volta, ha interpellato i propri consultori. La versione inglese del documento è stata ulteriormente cambiata tenendo conto di questi suggerimenti. Ciò significa che il documento è il risultato di un lavoro collettivo, a cui molte persone competenti hanno contribuito. A tutte loro siamo sinceramente riconoscenti.
Dopo il nulla osta concesso nel settembre 2015 dalla Congregazione per la dottrina della fede, il testo è stato presentato alla Segretaria di Stato, che, poco dopo, nell’ottobre del 2015, dava il via libera per la pubblicazione. Nel dicembre del 2014, Papa Francesco aveva già dato il suo benestare per la pubblicazione di un documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo per il 50º anniversario della promulgazione di “Nostra aetate” (n. 4).
Il giorno preciso della commemorazione di “Nostra aetate” è stato il 28 ottobre scorso, giorno in cui, cinquant’anni fa, fu promulgata la Dichiarazione dal Concilio Vaticano Secondo. Questo stesso giorno, Papa Francesco ha dedicato l’udienza generale alla Dichiarazione conciliare. Fin dall’inizio era stato deciso di non pubblicare questo documento -che è il quarto documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo- nel quadro delle celebrazioni del 28 ottobre scorso, ma di riservargli un momento a parte, distinto. La prima data possibile era per noi quella odierna, il 10 dicembre, dato che nel mese di novembre stavamo ancora ultimando le traduzioni del testo. Come è stato già detto, il testo originale è in inglese, ma sono disponibili versioni anche in italiano, francese, spagnolo e tedesco.
Alla presentazione del documento, abbiamo invitato oggi due amici ebrei, che sono stati coinvolti anche nel processo di preparazione del testo: il Rabbino David Rosen di Gerusalemme dell’American Jewish Committee ed il Dott. Edward Kessler di Cambridge del Woolf Institute. Mi pare un segno eloquente e positivo il fatto che alla presentazione di questo documento siano presenti anche esponenti ebraici con i quali conduciamo il dialogo ebraico-cattolico. L’opinione pubblica sarà sicuramente interessata a sapere come i nostri interlocutori ebraici accolgono il documento.
Naturalmente, e tengo a ripeterlo, la presente Dichiarazione è un testo cattolico, formulato da una prospettiva cattolica, poiché è normale che, come cristiani credenti, noi affermiamo la nostra identità di fede in maniera chiara anche nel dialogo con l’ebraismo, così come ci aspettiamo che facciano i nostri partner di dialogo ebrei. Soltanto così il rispetto reciproco ed il mutuo apprezzamento potranno crescere, soltanto così potremo conoscerci sempre meglio e diventare insieme una benedizione per gli altri.
[02132-IT.01] [Testo originale: Italiano]
Intervento del Rabbino David Rosen
Permettetemi anzitutto di esprimere la mia profonda gratitudine al cardinale Koch, a monsignor Farrell e a don Hofmann per l’invito a intervenire a questa conferenza stampa. Come ha osservato padre Hofmann, la presenza qui di rappresentanti ebrei è già di per sé una testimonianza forte ed eloquente della fraternità riscoperta tra cattolici ed ebrei. E sebbene il documento promulgato sia indirizzato ai fedeli cattolici e a loro destinato, poiché riguarda il rapporto tra la Chiesa e il popolo ebreo, è segno di cordiale rispetto verso quest’ultimo avere una presenza ebraica in questa conferenza. È molto incoraggiante e rispecchia il cambiamento davvero rivoluzionario nell’approccio cattolico verso gli ebrei e l’ebraismo.
Di fatto, come osserva questo documento, il quarto capitolo della Dichiarazione del concilio Vaticano II sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane, che tratta del rapporto della Chiesa con il popolo ebraico (e che questo documento descrive come “fulcro” di Nostra Aetate ), spiccava tra tutti proprio perché favoriva questo nuovo approccio positivo di «apprezzamento di fondo» ed è stato descritto come una rivoluzione copernicana nell’atteggiamento della Chiesa verso l’ebraismo e il popolo ebraico.
Come ha osservato il cardinale Koch nel suo intervento durante la celebrazione ufficiale nel cinquantesimo anniversario di Nostra Aetate qui a Roma sei settimane fa, «per la prima volta nella storia, un concilio ecumenico si è espresso in maniera così esplicita e positiva sul rapporto della Chiesa cattolica con l’ebraismo», fungendo da «bussola per la riconciliazione tra cristiani ed ebrei, valida sia per il presente che per il futuro».
Nostra Aetate ha aperto la strada che ha permesso ai successivi Pontefici di riaffermare il legame unico tra la Chiesa e il popolo ebraico documentato da questo testo, e di vedere il popolo ebraico come fonte viva di ispirazione divina per la Chiesa. Con le parole di Papa Francesco, «Dio continua a operare nel popolo dell’Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che scaturiscono dal suo incontro con la Parola divina» (Evangelii gaudium , n. 249).
Il risultato di questa considerazione positiva verso il popolo ebraico è il chiaro ripudio, dichiarato in questo documento, di qualsiasi «teologia della sostituzione che vede contrapposte (…) una Chiesa dei gentili e una Sinagoga respinta e sostituita da tale Chiesa».
Pertanto, questo documento non rivela soltanto i progressi della raccomandazione delle linee guida del 1974 per l’applicazione di Nostra Aetate di comprendere e rispettare il modo di autodefinirsi degli ebrei; ma anche una consapevolezza più profonda del posto che la Torah occupa nella vita del popolo ebraico; e, in conformità con il lavoro della Pontificia Commissione Biblica, un riconoscimento dell’integrità della lettura ebraica della Bibbia, che è diversa da quella cristiana. In effetti, il fatto stesso che il documento citi ampiamente anche da fonti rabbiniche ebraiche è un’ulteriore testimonianza di questo rispetto.
Permettetemi di ribadire nuovamente un aspetto importante evidenziato dal cardinale Koch e da padre Hofmann, ovvero che si tratta di un documento cattolico che rispecchia la teologia cattolica. È pertanto inevitabile che contenga dei passi che non sono, e non possono essere, in sintonia con una teologia ebraica. Tuttavia, come già osservato, va a suo merito il fatto che il documento cerchi di rispecchiare una comprensione sincera dell’auto definizione degli ebrei.
Forse mi si può concedere di sottolineare, nello spirito della nostra reciproca stima e della nostra amicizia, che per rispettare pienamente la comprensione ebraica di sé è necessario anche comprendere la centralità che la Terra d’Israele ha nella vita storica e contemporanea del popolo ebraico, ed è questa una cosa che sembra mancare.
Di fatto, anche in termini di un’analisi storica delle pietre miliari sullo straordinario cammino compiuto a partire da Nostra Aetate, anche l’instaurazione di relazioni bilaterali piene tra lo Stato d’Israele e la Santa Sede — guidata e promossa in gran parte da Papa san Giovanni Paolo II —è stata uno di questi importanti momenti storici. Per di più, il preambolo e il primo articolo dell’Accordo fondamentale tra le due parti riconoscono proprio questa importanza. Senza Nostra Aetate, l’instaurazione di tali rapporti certamente non sarebbe stata possibile. L’Accordo fondamentale non solo ha aperto la strada agli storici pellegrinaggi papali in Terra santa e quindi all’istituzione della Commissione bilaterale con il Rabbinato capo d’Israele, ma forse ha anche rispecchiato più di ogni altra cosa il fatto che la Chiesa cattolica aveva davvero ripudiato il suo modo di raffigurare gli ebrei come popolo errante condannato a essere senza dimora fino all’avvento finale.
Il riferimento del documento alla situazione delle minoranze religiose come cartina di tornasole della libertà religiosa è particolarmente pertinente in Medio oriente oggi; quindi la situazione dei cristiani in Israele, alla quale il documento si riferisce, è in netto contrasto con quella nella maggior parte degli altri luoghi della regione.
Tuttavia, consentitemi di osservare che l’importanza del rapporto tra ebrei e cristiani in Terra santa non è solo quella di dimostrare la questione della libertà religiosa. È anche una cartina di tornasole della misura in cui Nostra Aetate e il successivo insegnamento del Magistero vengono interiorizzati proprio dove i cristiani sono una minoranza e gli ebrei una maggioranza, e non viceversa; e a tale riguardo c’è ancora molto lavoro educativo da fare.
Il riferimento alla pace in Terra santa come pertinente al rapporto tra cattolici ed ebrei è altrettanto importante. I popoli, lì, vivono nella reciproca estraniazione e con delusione, e ritengo che la Chiesa cattolica possa svolgere un ruolo importante nel ricostruire la fiducia, come, ad esempio, con l’iniziativa della preghiera per la pace presa da Papa Francesco. Permettetemi di esprimere la speranza che presto vi siano altre iniziative, per consentire alla religione di essere una fonte di guarigione invece che di conflitto; e per assicurare che queste siano coordinate con quanti hanno l’autorità politica di aprire la strada per permettere alla terra e alla città della pace di rendere giustizia al proprio nome.
Vorrei esprimere il mio particolare apprezzamento per l’enfasi posta dal documento sulla responsabilità degli «istituti di istruzione (…), in particolare nel campo della formazione dei sacerdoti, [perché] includano nei loro curricula sia Nostra Aetate che i documenti successivi della Santa Sede sull’attuazione della Dichiarazione conciliare». Forse questa continua a essere la sfida più grande nel portare le realizzazioni dalle loro vette olimpiche alle genti ovunque.
Allo stesso modo, l’invito all’azione comune non potrebbe essere più opportuno. Il documento fa riferimento alla collaborazione del Comitato internazionale di collegamento cattolico-ebraico in Argentina nel 2004; e vorrei aggiungere che in seguito c’è stata una significativa collaborazione all’incontro dell’International Catholic-Jewish Liaison Committee a Città del Capo, dove le organizzazioni e le iniziative per l’assistenza sanitaria ebree e cattoliche, operanti in particolare con le vittime dell’Aids, sono state riunite per facilitare la collaborazione e diventare più grandi della somma delle loro diverse parti. Con forza faccio eco ai sentimenti espressi in questo documento, secondo cui ci sono molte più cose che possiamo fare insieme, sia per affrontare i mali della società moderna sia per combattere il pregiudizio, il fanatismo e l’antisemitismo, che la Chiesa ha condannato con forza, ribadendolo in questo documento.
Infine vorrei arrivare al tema della “complementarità” di cui parla il documento, basandosi sulle parole di Papa Francesco in Evangelii gaudium sul «leggere insieme i testi della Bibbia ebraica e (…) sviscerare le ricchezze della Parola».
Il documento amplia ulteriormente la nozione di complementarità quando afferma che da un lato «senza Israele, la Chiesa rischierebbe di perdere la sua collocazione nella storia della salvezza»; e dall’altro aggiunge «dal canto loro (…), gli ebrei potrebbero arrivare alla conclusione che, senza la Chiesa, Israele correrebbe il rischio di rimanere troppo particolarista e di non comprendere a sufficienza l’universalità della sua esperienza di Dio».
Permettetemi di osservare che non c’è simmetria in queste osservazioni. La prima esprime una comprensione del carattere intrinseco della Chiesa, mentre la seconda mette in guardia da un possibile fraintendimento e forse perfino un abuso del concetto ebraico di elezione e contro la perdita di un senso di responsabilità universale. Tra le due cose c’è una profonda asimmetria non solo perché il bisogno che la Chiesa ha d’Israele riguarda l’auto comprensione che è alla base del cristianesimo; ma anche perché il pericolo reale dell’insularità etnica non è una cosa di cui l’ebraismo fosse inconsapevole prima della nascita del cristianesimo e per cui abbia specificamente “bisogno” della Chiesa. Questo avvertimento è molto evidente nella scrittura profetica ebraica, più marcatamente forse nel libro di Amos, ed è articolato in tutta la letteratura talmudica e medievale ebraica.
E d’altro canto, si potrebbe osservare che una dottrina assertivamente universale è un pericolo altrettanto grande, poiché può diventare esclusiva, imperialista e trionfalista, e forse ancora di più.
Comunque, nei secoli diversi luminari ebrei hanno a loro volta articolato un concetto di complementarità, vedendo il cristianesimo come veicolo divino per mezzo del quale le verità universali che il giudaismo ha portato al mondo possono, di fatto, essere disseminate con maggiore efficacia nell’universo al di là delle limitazioni poste dall’essere popolo ebraico.
Il rabbino Samson Raphael Hirsch, uno tra i più grandi leader rabbinici del XIX secolo, addirittura considerava la frattura tra Chiesa e Sinagoga una parte necessaria del disegno divino per rendere possibile il compito universale del cristianesimo.
Alcuni sono andati anche un p o’ oltre a tale riguardo, fino a intendere il concetto di complementarità nel ruolo parallelo dove l’incentrarsi degli ebrei sull’alleanza comune con Dio e dei cristiani sul rapporto individuale con Dio possono servire a bilanciarsi a vicenda. Addirittura c’è chi ha suggerito che l’autonomia della comunità affermata dall’ebraismo può servire più opportunamente come modello di una società multiculturale moderna, mentre il cristianesimo può offrire una risposta migliore all’alienazione individuale nel mondo contemporaneo.
Un altro suggerimento di qualche teologo in merito a questa complementarità riguarda il rapporto tra il ricordarsi degli ebrei che il Regno dei Cieli non è ancora venuto nella sua pienezza e la consapevolezza cristiana che in qualche modo tale Regno si è già radicato nel qui e ora.
Ad ogni modo, il fatto stesso che possiamo parlare di complementarità è già una potente dimostrazione dei progressi compiuti in questo straordinario percorso di cambiamento e di riconciliazione tra cattolici ed ebrei nell’ultimo mezzo secolo. È stato possibile, in non minima parte, grazie al lavoro quotidiano e alla guida della Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, e il documento pubblicato oggi è un’altra importante pietra miliare su questo cammino davvero meraviglioso, per il quale tutti dobbiamo rendere grazie all’unico Creatore e Guida del cielo e della terra.
Intervento del Dr. Edward Kessler
Il numero 4 di Nostra aetate ha segnato gli inizi di una nuova impostazione delle relazioni tra cattolici ed ebrei e la fine del millenario insegnamento del disprezzo (l’enseignement du mépris , espressione utilizzata dal sopravvissuto all’olocausto Jules Isaac, che incontrò Giovanni XXIII ) degli ebrei e dell’ebraismo. Il documento ha affermato in modo inequivocabile il debito della Chiesa verso la sua eredità ebraica e dato inizio a una nuova era, a nuovi atteggiamenti, a un nuovo linguaggio del discorso che non si era mai udito prima nella Chiesa cattolica riguardo agli ebrei. Nella relazione entrava ora il concetto di dialogo.
Adesso, cinquant’anni dopo, sotto la guida del cardinale Koch, la Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, ha pubblicato un nuovo documento chiave che esamina alcune questioni teologiche fondamentali che sono al centro di un rapporto intimo, intricato e unico. La sua premessa teologica si basa sul fatto che, come afferma N o s t ra aetate, «dal popolo ebraico sono nati gli apostoli», fondamenta e colonne della Chiesa, che «si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i gentili». In questo documento, dunque, vengono giustamente ricordate ai cristiani le origini ebraiche del cristianesimo e in particolare che Gesù era un fedele ebreo.
In seguito a un cambiamento d’animo, sintetizzato da Nostra aetate, la Chiesa cattolica romana è passata da quello che, in larga parte, era un bisogno di condannare l’ebraismo a un bisogno di condanna dell’antiebraismo. Ciò ha portato non a un distacco da tutto ciò che era ebraico ma, anzi, a un rapporto più stretto con il “fratello maggiore”. Il nuovo documento, che accolgo con piacere e apprezzamento, ricorda ai cristiani questa relazione fraterna mentre stabilisce un’agenda teologica per futuri dibattiti.
Il rabbino Rosen ha parlato delle relazioni tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele e delle sfide, teologiche e politiche, insite in esse. Le mie osservazioni, dunque, si concentreranno su argomenti diversi dalla Terra Santa. In particolare, vorrei affrontare un concetto che ha disturbato molto i rapporti tra ebrei e cristiani e che, lodevolmente, il documento non evita: la pretesa cristiana di essere il popolo dell’alleanza che succede al precedente, eletto da Dio per sostituire Israele a causa della sua infedeltà, che ha portato alla teoria della sostituzione, nota anche come teologia della sostituzione. Secondo questo insegnamento, dai tempi di Gesù gli ebrei sono stati sostituiti dai cristiani nella benevolenza di Dio e tutte le promesse di Dio al popolo ebraico sono state ereditate dal cristianesimo.
Il nuovo documento affronta un dilemma al centro dell’attuale comprensione cristiana dell’ebraismo, dimostrato anche da Nostra aetate . Da un lato, il documento afferma che «la Chiesa è il nuovo popolo di Dio», mentre dall’altro dice che «gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento (cfr. Lettera ai Romani, 11, 28-29)».
Il dibattito sulla teologia dell’alleanza sta riemergendo nelle discussioni contemporanee tra studiosi cristiani ed ebrei e apprezzo l’affermazione del documento secondo cui «la Nuova Alleanza, per i cristiani, non è né l’annullamento né la sostituzione, ma il compimento delle promesse dell’Antica Alleanza». Consentitemi però di lanciare un monito: il compimento può facilmente scivolare nella sostituzione e la teoria della sostituzione è viva e vegeta tra i banchi delle chiese. Come interlocutore ebreo nel dialogo gradirei un’ulteriore riflessione su ciò che compimento significa in termini di relazioni con l’ebraismo e su come possiamo assicurare che il cambiamento nei rapporti non sia limitato all’élite, ma si estenda dalla Città del Vaticano ai banchi delle chiese, come anche dagli uffici dei rabbini capo ai pavimenti delle nostre sinagoghe.
Collegato a ciò è, da una prospettiva cristiana, il bisogno di riflessione sulla sopravvivenza del popolo ebraico e sulla vitalità dell’ebraismo in questi duemila anni; è questo il «mistero» d’Israele sul quale Paolo riflette nella sua Lettera ai Romani. Uno dei motivi per cui Nostra aetate viene giustamente considerata una pietra miliare nei rapporti tra cristiani ed ebrei è che ha avviato un processo immensamente difficile e dispendioso, ovvero quello di prendere l’”altro” sul serio nella stessa misura in cui si esige di venir presi sul serio. In altre parole, come dicono le Linee guida del 1975, l’ebraismo e il cristianesimo devono essere compresi nei loro stessi termini. Il nuovo documento deve fare ancora un po’ di strada prima che io possa riconoscermi nella sua raffigurazione dell’ebraismo. Per esempio, si parla poco dell’ebraismo contemporaneo essendo il documento incentrato sull’ebraismo biblico e rabbinico.
Poco più di un secolo fa, nel 1913 il filosofo e teologo ebreo Franz Rosenzweig scriveva sull’affermazione di Gesù secondo cui «nessuno viene al Padre se non per mezzo di me».
Rosenzweig non affronta la questione criticando l’affermazione; anzi, sostiene che è vera, specialmente se si pensa ai milioni di persone che sono state condotte a Dio per mezzo di Gesù Cristo. Tuttavia, prosegue, «la situazione è molto diversa per chi non deve andare al Padre perché è già con lui. Devo convertirmi io – domanda – che sono già stato scelto? Davvero per me esiste l’alternativa della conversione?». Rosenzweig ci porta a una domanda che è fondamentale nelle relazioni attuali, a una questione che noi ebrei e cristiani dobbiamo ponderare. Fino a che punto i cristiani possono considerare l’ebraismo valido nei suoi propri termini (e viceversa). Un’affermazione della Pontificia commissione biblica, elogiata in questo nuovo documento, può indicare il cammino per andare avanti laddove dice «i cristiani possono e devono ammettere che la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le sacre Scritture ebraiche».
Naturalmente le domande devono essere considerate anche dalla prospettiva ebraica. Qual era il fine divino dietro la creazione del cristianesimo? Quali implicazioni derivano per gli ebrei dal fatto che come conseguenza dell’ebreo Gesù ora due miliardi di cristiani leggono la Bibbia ebraica? Martin Buber, per esempio, considerava Gesù come «mio fratello maggiore». Per gli ebrei, l’alleanza promessa ad Abramo e rivelata a Mosè non solo dimostra la relazione unica e irrevocabile tra il popolo ebraico e Dio, ma forse concede anche lo spazio teologico ai cristiani per possedere una loro relazione speciale con Dio e vedere il proprio riflesso in uno specchio ebraico, che può servire a rendere più profondi sia la fede cristiana in Cristo sia il rispetto per i loro fratelli maggiori.
Sono queste alcune mie riflessioni teologiche nel leggere il nuovo documento, che apprezzo, e attendo con piacere ulteriori dibattiti. Di fatto, sono molto lieto di annunciare che, in collaborazione con la Pontificia Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, il Woolf Institute sta organizzando per il prossimo anno un incontro tra alcuni importanti teologi ebrei e cattolici a Cambridge, per esaminare queste e altre questioni teologiche. Forse dovremmo iniziare dal significato contemporaneo dell’elezione di Israele e dell’elezione della Chiesa? Come Papa Francesco ha detto a giugno: «Nella ricerca di un giusto atteggiamento verso Dio, i cristiani si rivolgono a Cristo quale fonte di vita nuova, gli ebrei all’insegnamento della Torah». È urgentemente necessaria un’ulteriore riflessione su ciò che tutto questo significa per cristiani ed ebrei, e di fatto per tutti gli uomini e le donne di fede.
Gli ultimi cinquant’anni hanno visto un cambiamento dimostrabile da un monologo anteriore a Nostra aetate sugli ebrei a un dialogo istruttivo (e talvolta difficile) con gli ebrei. Il monologo in genere non riesce a comprendere la realtà dell’altro, mentre il dialogo esige il rispetto dell’altro così come comprende se stesso. La sfida di compiere il passaggio dal monologo al dialogo resta immensa.
Oggi è evidente che molte delle questioni che dividono sono state eliminate o portate al punto più estremo in cui è possibile un accordo. Gli sforzi compiuti dai cattolici verso il rispetto dell’ebraismo proiettano atteggiamenti che sarebbero stati impensabili mezzo secolo fa. Negli ultimi cinque decenni, ebrei e cristiani hanno assistito a un grande cambiamento e, come dimostra il nuovo documento, sono stati compiuti passi da gigante, anche se parliamo di un processo dinamico e incessante. Non potremo mai adagiarci e dire «il lavoro è concluso, l’agenda è stata completata». A ogni modo, su molte questioni importanti ebrei e cattolici si trovano dallo stesso lato della staccionata teologica, dinanzi alle stesse sfide, e siamo nell’insolita posizione di cercare di affrontarle insieme. Che il nostro impegno congiunto sia benedetto dall’Onnipotente e che, a nostra volta, possiamo imparare a essere una benedizione gli uni per gli altri!
[B0976-XX.01]