Sunday, 2 September, 2012
 

In missione tra i più poveri, la testimonianza del missionario laico Renato Matteazzi


La testimonianza del missionario laico Renato Matteazzi non può lasciare indifferenti. Egli racconta una storia, quella che Dio ha compiuto nella sua esistenza e nella sua famiglia. Storia che è divenuta vita, non chiusa in se stessa, ma da far conoscere agli altri, per sperimentare un amore che trasforma il cuore dell’uomo.
Da questo fatto, nasce l’esigenza della missione: annunciare ad ogni uomo quanto è accaduto nell’incontro con Gesù Cristo. Una missione intesa come missione generativa, educativa della persona umana. Rigenerare la persona umana in Cristo è un cammino, un processo verso quella pienezza che l’ansia apostolica di Paolo spiegava con l’espressione «finché Cristo non sia formato in voi».

L’evangelizzazione consiste in un radicale cambiamento di mentalità: una vera conversione, cioè un incontro straordinario e personale con Cristo, che, nella Chiesa, si fa annuncio.

Come è nata la decisione di partire in missione?
Più che una decisione è stata una chiamata del Signore. È nata dopo anni di maturazione nel cammino neocatecumenale nella parrocchia della Beata Vergine delle Grazie, dove pure ci siamo sposati. Dopo una crisi matrimoniale, Dio è intervenuto nel nostro matrimonio con il suo amore. Abbiamo sentito una gratitudine al Signore per quello che aveva fatto e abbiamo dato la nostra disponibilità. Il sorteggio ci ha indicato come luogo di missione Guayaquil, in Ecuador, e siamo partiti nel 1991. La zona è poverissima. Ho avuto una crisi forte e volevo tornare indietro con tutta la mia famiglia. In quella situazione, però, il Signore è venuto in nostro aiuto, togliendoci la paura del domani.

Una valutazione di questi venti anni?
Ho visto che noi siamo servi inutili. È Dio che ha fatto un’opera grandiosa. Questa chiamata — lo confidavo allora già a mons. Bellomi — non è per me, ma per tutta la Chiesa di Trieste.

Accennava alla difficoltà dell’inizio. E poi?
Abbiamo cominciato con un lavoro molto semplice, visitando la famiglie con un annuncio esplicito di Gesù Cristo. Non siamo maestri, ma testimoni di quanto Dio ha operato nella nostra vita. Abbiamo iniziato una catechesi e poi sono nate le comunità. Siamo rimasti in quella zona undici anni, poi altri otto a Esmeralda e oggi siamo a Duran.

Solitamente si ha l’idea che in missione si compiano prima le opere e poi si annunzia il kérygma…
Non abbiamo fatto opere sociali, ma prima abbiamo annunciato l’amore di Dio. Solo così si ricostruisce il tessuto sociale. Il cristianesimo ha questo compito e lo porta a termine con l’annuncio di Gesù Cristo, colui che dà senso. Il nostro lavoro principale non è tanto la parte sociale: questo deve farlo lo Stato o altre organizzazioni.
La teologia della liberazione partiva da un altro presupposto: l’opzione preferenziale ai poveri, un vangelo solo terrestre e la lotta di classe che lo trasformava in una ideologia…

Quando si arriva lì, il primo scandalo che colpisce è la povertà e poi l’ingiustizia. C’è qualcosa che ti si ribella dentro. Noi siamo andati in America latina con una visione antropologica diversa: l’uomo sta in quelle condizioni, perché non ha incontrato Gesù Cristo. Ho constatato come, nei progetti sociali, la persona non cambia dentro. È Gesù Cristo che cambia il cuore dell’uomo ed è qui che la persona trova dignità. Quando uno sente l’amore di Dio riacquista questa dignità e, quindi, tutto ciò che sta attorno acquista un senso. È chiaro che è un lavoro molto lento, non appariscente e non andrà mai sui giornali…

E la corrispondenza da parte della gente?
Per noi all’inizio è stato difficile, ma in realtà… facile: ti aprono le case e si può parlare, contrariamente alla realtà di Trieste dove c’è una forte secolarizzazione. C’è una buona accettazione, perché c’è una religiosità naturale e popolare. Abbiamo parlato con franchezza a tutti, perché non avevamo nulla da perdere. Siamo andati tra i più poveri e abbiamo incontrato anche i più ricchi, scoprendo come questi ultimi sono i più poveri. Hanno soldi, ma sofferenze terribili nella famiglia, con una vita distrutta.

Può spiegare meglio l’accenno alla realtà di Trieste?
Quando uno si chiude in se stesso vive l’inferno. Gesù Cristo ha il potere di toglierti dall’inferno e ti mette in una comunità, perché la gente ha bisogno di stare insieme. L’altro giorno ho visto una pubblicità in via Giulia che diceva: “Incontrati con gli altri”. Quindi vuol dire che chi studia la pubblicità sa che l’incontrarsi è un’esigenza. È necessario l’annuncio di Gesù Cristo, perché la persona, incontrandosi con Lui, possa poi incontrarsi con l’altro. In caso contrario, si chiude in se stessa ed ha paura dell’altro, dello straniero…

Dalle nostre parti, spesso si è inibiti di fronte ad una Verità così esplicita. Si preferisce piuttosto mettere tra parentesi Gesù Cristo e compiere “buone azioni” nel sociale…
Questa Verità noi l’abbiamo sperimentata. È una Verità che ci ha sostenuti in tanti anni. Vediamo come la Chiesa, che ha una Tradizione, ha conservato la Verità nell’annuncio, non umiliando la persona, ma dandole una dignità enorme. Quando lavoravo nel sociale, mi chiedevo se dare soldi o anche una casa in realtà non fosse umiliare la persona: «Tu sei un morto di fame e devo venire io ad aiutarti». Bisogna stare attenti. Si può fare molto del bene, ma umiliando la persona. Invece, l’annuncio di Gesù Cristo, non solo non umilia, ma è una Verità (certo, non filosofica) sulla quale appoggiare la tua vita. È una roccia la Verità di Cristo. Vedo che la Verità si afferma da sola, funziona, ti dà la capacità di vivere meglio e di non metterti al di sopra dell’altro.

In che senso?
Anche lavorando nel sociale abbiamo visto tante organizzazioni che fondamentalmente vanno da questa gente e si mettono su un piano superiore: «Io ti insegno e tu devi cambiare, tu devi fare questo» per un bene, perché abbiano una casa. Ma non è, forse, umiliare? Questo è umiliante ed è un metodo violento. La gente se ne accorge, perché è furba. Ti accetta fino a quando gli dai qualcosa, poi, però, continuano come prima. Cioè, non è cambiato il cuore dell’uomo.

È aumentata in noi la gratitudine al Signore vedendo le sue meraviglie, per come compie un’opera attraverso di noi: «Se il chicco di grano non muore…». L’unica carità grande è far incontrare la persona con Gesù Cristo.

 

fonte:  http://www.vitanuovatrieste.it/content/view/6411/1/

 

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Questo articolo è stato scritto da: Jacopo





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