La banda Battestini e il fratello buono

PESCARA. «La bici che avevo a otto anni era rossa e pesava come una Beretta M9. Almeno è stata questa la mia prima impressione. L’ho scoperto un giorno che stavo rovistando nei cassetti di mio fratello, quello bello…». Roberto Battestini ha 44 anni, sette figli e un ottavo in arrivo. Quando i fratelli Pasquale e Rolando hanno iniziato a seminare il terrore alla fine degli anni Settanta con la banda di rapinatori che da loro prese il nome, Roberto aveva nove anni e la convinzione di essere nato per sbaglio in quella famiglia che non c’entrava niente con lui. «Volevo solo essere normale», racconta oggi nello studio in cui, con i suoi fumetti, disegna e dà voce a storie di bibbia e di santi pubblicate per Catecomics da importanti case editrici religiose come la Edb di Bologna o la Ave dell’Azione cattolica, per cui ha in uscita la storia di San Francesco e quella di Papa Wojtyla. Storie che, per il suo percorso neocatecumenale, gli appartengono al pari di quella autobiografica raccontata nel suo libro-liberazione, «Fratelli», pubblicato nel 2009 per Bottero dopo un lavoro durato 12 anni.

In copertina Pasquale e Rolando, 18 e 14 anni più di Roberto, disegnati ancora come ragazzini dall’aria educata, ancora specchio di una famiglia perbene come quella di Ferdinando e Serafina. Impiegato all’intendenza di finanza lui e rappresentante farmaceutica lei, da Mosciano Sant’Angelo. «La stabilità e il coraggio» li definisce Roberto che ha passato l’infanzia a sentirsi protetto dai genitori e a fingere di essere sereno «per non farli preoccupare». «Ma se a casa non si parlava di quello che facevano i miei fratelli, ne parlavano i compagni di scuola, i telegiornali, e per questo a dieci anni chiesi di andare via da Pescara». È Treviso, è il collegio dei Fratelli cristiani che però non basta, anzi, ad alleggerirgli quell’insopportabile fardello. «Non accettavo la mia famiglia, volevo scrollarmi di dosso un peso che non era il mio. Ma quando tornai dopo le medie ero più a pezzi di prima». E mentre, all’inizio degli anni Ottanta, la banda Battestini raggiunge l’apice della violenza con rapine che finiscono nel sangue, Roberto approda nella comunità neocatecumenale di Sant’Antonio, dove inizia il suo percorso di fede di cui ancora oggi è attivo testimone, nel lavoro e nella vita, con la moglie Raffaella. «Dopo aver provato a fuggire, ho capito che dovevo affrontare la mia esistenza per quella che era e oggi posso dire che se ho incontrato Dio è grazie ai miei fratelli». Per questo il libro, «per raccontare che l’amore per il prossimo inizia prima di tutto imparando ad accettare i fratelli diversi da te; ma anche per raccontare il dolore vissuto di rimbalzo di fronte a fatti che coinvolgono i propri familiari». Un dolore che Roberto prova ancora parlando di Rolando morto in carcere nel 1992. «Artista, comunicativo, che avrebbe potuto fare qualunque altra cosa. Bello, intelligente, che quando ero piccolo riusciva ad anticipare ogni mio desiderio». Ma che pure, tossicodipendente, «ha ucciso una persona durante una rapina a Filetto». Eventi dolorosi che Roberto, prima di trasformarli nei disegni delle sue tavole («anche per riparare in qualche modo al male fatto dai miei fratelli»), ha riscostruito attraverso appunti, ricerche e testimonianze raccolti in sei faldoni. È la banda Battestini raccontata con gli occhi di un adulto, ma prima ancora di un bambino che si vede piombare in casa il fratello Pasquale, «quello con gli occhiali» che lui stenta a riconoscere. Lo vede tagliarsi i baffi e i capelli, lucidarsi le scarpe di nero e infilarsi una camicia del padre, prima di salutarlo raccomandandosi di non dire niente alla mamma. Erano gli anni Settanta, «seppi anni dopo», scrive Roberto, «che era scappato dal carcere». Lo stesso Pasquale che, rimasto ucciso mentre tentava di forzare un posto di blocco nel 1988, dal carcere di Pianosa scriveva a Roberto: «Essere fratelli è una specie di affinità, e anche se ci siamo appena conosciuti ti ho sempre voluto bene». Affinità che non vuol dire complicità. «Ognuno di noi», sottolinea Roberto, «ha la possibilità di scegliere, c’è il libero arbitrio, ma le scelte portano delle conseguenze che ognuno di noi deve valutare. Per anni, tra perquisizioni in casa e visite in carcere, ho sentito tutta la conflittualità di quella situazione, al punto da sentirmi io stesso in difetto quando sentivo una sirena. Se oggi colleziono le macchinine dei carabinieri è perché sono uscito da quegli schieramenti riuscendo, grazie alla fede, a dare un senso alla mia croce, a trovare la mia identità. E ai miei figli posso dire che il Signore è stato buono, perché mi ha permesso di vivere questi fatti come un insegnamento». Della vita precedente, come disegna Roberto nel libro, torna a trovarlo di tanto in tanto il suo alter ego «Pino il bambino triste», che si mette su un mobile della cucina e guarda la sua allegra e numerosa famiglia a tavola. È «Fratelli» oggi, nella sua versione più bella.

Fonte: il Centro http://ilcentro.gelocal.it/pescara/cronaca/2011/02/20/news/la-banda-battestini-e-il-fratello-buono-3495595

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